martedì 3 ottobre 2017

Blog Tour: Kunoichi Sen di Giusy Moscato



Nel cuore dell’isola di Hokkaido sorge il villaggio di Kakushimura dove gli uomini si allenano per diventare i migliori ninja del Giappone. Per generazioni è stato così, finché non sono nata io, una donna, figlia primogenita di uno dei più importanti clan. Mi è stato imposto un nome maschile, mi hanno ordinato di celare il mio volto e mettere a tacere la mia voce. Ho dovuto allenarmi duramente, come un uomo, per diventare ciò che i miei antenati volevano che fossi.
Mi chiamo Nakagawa Sen e sono un ninja.

Per un secondo o due la vista mi si offuscò e anche gli altri sensi smisero di fornirmi informazioni su ciò che accadeva intorno a me, poi l’aria tornò nei polmoni, bruciandomi la gola.
Con un solo scatto di reni mi rimisi in piedi, appena in tempo per contrastare la serie di pugni che mi si avventava addosso. Le mie mani si muovevano rapide per evitare l’impatto con uno dei miei centri vitali. Destra, sinistra, sopra, sotto, viso, cuore, collo, stomaco, spalla, guancia. Era tutto così veloce che bastò un battito di ciglia per finire contro un albero. La corteccia mi scorticò la pelle.
Spero che tu sia pronto, Jin.
Come richiamato dal mio pensiero, il mio compagno si gettò contro il nostro sensei, cogliendolo di sorpresa. Mi unii a lui, impugnando un kunai e attaccando sull’altro lato. Ogni nostro gesto era sincronizzato alla perfezione, come un guerriero con il doppio degli arti, come «due braccia di uno stesso corpo». Ciononostante, mio padre non dava il minimo cenno di cedimento, riuscendo a contrastare con facilità la nostra forza congiunta.
Per la terza volta fui scaraventata via, atterrando su un cespuglio di rovi. Sentii l’odore pungente del sangue, ma nessuna ferita, per quanto grave, mi avrebbe impedito di portare a termine quel compito.
Scorsi Jin a terra, anche lui piuttosto affaticato per quella prova.



Tra me e il precipizio, parzialmente coperta da un basso cespuglio, giaceva una pozza che assorbiva la luce di quell’unico raggio di sole proveniente dall’alto. Lì, in quel misto di terra e pioggia, si specchiava il mio misterioso volto.
I miei occhi… da quanti anni non li vedevo? Non li ricordavo così profondi e tristi come si mostravano adesso innanzi a me. Come potevo guidare quell’operazione, farmi rispettare dai miei compagni se neppure io stessa riuscivo a fidarmi di quell’immagine riflessa? Chi mai avrebbe potuto affidare la propria vita a un individuo di cui non si conoscevano neppure i tratti somatici? La cieca lealtà dei miei compagni quasi mi commuoveva. A parti inverse, non credevo che avrei fatto lo stesso nei loro confronti.



Il sole aveva ormai ceduto il passo alle tenebre e le lingue fiammanti delle fiaccole coloravano di tinte rossastre ogni cosa in quell’arena. Jin camminava in circolo, il lungo bastone che aderiva alla perfezione al suo fianco destro. Quelle luci intense risaltavano sulla sua pelle tesa e sudata. Studiava il suo nemico e il suo nemico studiava lui, in un gioco di sguardi attenti, intensi. A ogni passo il loro cerchio si stringeva, finché, in uno slancio improvviso, Jin attaccò. Un colpo dall’alto, subito parato, un altro in basso, quindi un contrattacco da parte di Yoichi. I due bo roteavano senza sfiorarsi, poi cozzavano. I due ninja schivavano gli affondi, saltavano, si abbassavano, ruotavano, in quella che poteva essere considerata una danza più che una vera e propria lotta. Si allontanarono di nuovo e di nuovo si unirono. Un ritmo crescente martellava l’aria ; i colpi erano sempre più veloci.



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